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Racconto: Amicizia.

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view post Posted on 5/6/2018, 17:14     +1   -1
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“Last one alive lock the door”

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Mi sono cimentato nella scrittura di una breve storia dal titolo "Amicizia", se avete pazienza vi invito a leggerlo e dirmi cosa ne pensate.


“Rendiamoci conto: quello stronzo di Billy Hawk scarrozza ogni giorno la sua fidanzata da un capo all’altro di Moapa Town ma non vuole accompagnarci in macchina a Vegas”.
“Già” aggiunse Nick, “abbiamo un amico con l’ultimo modello di corvega, full optional, e a noi tocca viaggiare su questa merda di treno, tra l’altro sempre più affollato.”
“Prendetevela con il suo fottuto padre” continuò Tank “gli compra qualsiasi stronzata costosa lui voglia solo perché, da quando è iniziata la guerra, hanno aumentato a dismisura gli stipendi agli ufficiali. Vorrei andare io a poggiare il culo in qualche ufficio con l’aria condizionata e grattarmi i…” Il passaggio di due uomini in divisa lungo il corridoio della carrozza interruppe la frase, a giudicare dalle stelline appuntate sulla giacca e dall’occhiataccia che ci avevano riservato dovevano appartenere agli alti ranghi.
“Bella figura abbiamo fatto” bisbigliai. Tank era troppo imbarazzato per ascoltarmi: stava guardando in basso a braccia conserte, nascondendo la metà inferiore del viso nella maglietta e lasciando spuntare solo i suoi occhi grigi insieme a una chioma castana scomposta, come era solito fare in situazioni simili. Per spezzare la monotonia del viaggio Nick estrasse il suo onnipresente taccuino e iniziò a scarabocchiare strani ghirigori, studiava grafica, e ogni volta che chiedevo cosa stesse disegnando mi rispondeva che erano idee per insegne Nuka Cola; sognava di diventare il loro pubblicitario di punta e, a vedere l’impegno che riusciva a trasferire nei foglietti, avrei scommesso ce l’avrebbe fatta.
Provai a ricominciare la conversazione: “Ci credete che tra un’ora esatta saremo a passeggiare immersi nel lusso della strip?” Nick, ancora concentrato sui suoi schizzi, annuì con un cenno svogliato della testa rapata, tank rispose in tono sarcastico: “Seee, è già un miracolo se abbiamo racimolato i soldi per le camere in un hotel di second’ordine, probabilmente ci faranno pagare anche solo per guardare i locali”. Iniziò poi a raccontarmi la storia di un barbone spedito all’ospedale dalla sicurezza del casinò perché aveva sostato troppo a lungo davanti alle porte del Caesars Palace. “A proposito di barboni” lo interruppi io “guarda chi sta tornando dal bagno”. Era Francis, il quarto membro della compagnia che, nonostante tentasse di curare in maniera maniacale il suo aspetto, appariva sempre trasandato; per questo veniva perculato spesso, in particolar modo da Tank, ma fortunatamente stava sempre al gioco ed era buono come il pane. La colpa andava attribuita ai suoi lunghi capelli neri che sembravano grondare olio a ogni ora del giorno. Tra gli occhi scuri allungati e la “friggitrice” indossava una fascia di spugna bianca, diceva che gli portava fortuna, ma probabilmente la metteva solo per distogliere l’attenzione dal cuoio capelluto.
“Devi toglierti quella fascetta di merda dalla testa, ci saranno colonie di pidocchi grandi come città lì dentro, la Las Vegas dei pidocchi!” Iniziammo a ridere. “Dai non rompere i coglioni Tank, ogni volta le stesse battute.” Ribattè Francis assumendo un tono a metà tra il divertito e l’incazzoso. Nick ripose il taccuino, sapeva come sarebbe finita, infatti qualche minuto dopo ci ritrovammo impegnati in una discussione goliardica su chi avesse i capelli unti e chi fosse lo stronzo del gruppo; tra le risate, le pacche e gli insulti bonari mi staccai un attimo dalla conversazione con la mente e tentai di imprimere il momento che desideravo durasse il più possibile. Era la prima vacanza in un posto veramente degno di nota che riuscivamo a organizzare tutti assieme, lontano da casa e dai problemi giornalieri; avevamo racimolato i soldi con qualche lavoretto da studenti durante l’anno e non vedevamo l’ora di farci ammaliare dalle luminarie di Las Vegas, il treno sfrecciava nell’assolato deserto del Mojave, la filodiffusione del vagone emetteva dello swing orecchiabile e, nonostante fossimo in ottobre, anche il clima era perfetto. Sembrava di stare in prima classe.
Rientrai nell’atmosfera allegra e fomentai ancora per un po’ lo scambio di battute, poi quando ci calmammo mi alzai per andare in bagno.
Percorsi il vagone fino in fondo incrociando a metà strada gli ufficiali che, fortunatamente, sembravano aver cancellato il ricordo dei tre perdigiorno insolenti e si stavano rilassando avvolti dal pacchiano rivestimento dei sedili, reso ancora più grigio dal fumo dei costosi sigari che tenevano tra le dita. Era proprio una giornata stupenda, un’ottima introduzione per la nostra vacanza, al di là del finestrino il deserto continuava a scorrere spezzando la sua monotonia con qualche paesino isolato che appariva di tanto in tanto.
Mentre entrai in bagno il treno si infilò in galleria, una delle tante sotto le montagne attorno a Vegas. Accesi la lucetta sopra il lavandino e guardai l’ora sul mio orologio da polso: 9:47 “in meno di mezz’ora saremo a destinazione” pensai. Iniziai la mia pisciata ma in quel preciso istante la musica degli altoparlanti si spense così come l’illuminazione. Il treno si fermò. “e che cazzo, mi tocca anche farla al buio, non si lamentino se sporco in giro”. Sentii molteplici voci ripetere questa frase “non vi preoccupate, ci deve essere stato un malfunzionamento sulla linea, siamo fermi in galleria ma vi preghiamo di scendere dal treno per questioni di sicurezza, in maniera ordinata mi raccomando, dirigitevi all’uscita del tunnel che si trova a pochi metri dalla locomotiva di testa”.
Cazzo, dovevo sbrigarmi, mi sforzai per finire in fretta il mio bisogno nella completa oscurità. Ma dall’altro lato della porta sentii delle parole che mi fecero raggelare il sangue, restai immobile per minuti ad origliare. Il penetrante aroma di sigaro mi fece subito capire che erano i due militari, le loro voci erano intrise di terrore: “Non ci posso credere, come fai ad essere sicuro sia quello?” “Ma le hai viste le torce elettriche dei controllori? Nessuna funziona, stanno facendo uscire le persone alla luce dei fiammiferi; dobbiamo agire subito, e in fretta, abbiamo poco tempo.” “E se è veramente un guasto alla linea? Non è possibile che l’aeronautica non abbia intercettato i bombardieri.” “Senti, devi smetterla di dire stronzate, lo hai visto anche tu il caos degli ultimi mesi al comando, a momenti non sappiamo neanche più contro chi stiamo combattendo. Ora fidati di me: dobbiamo raccogliere quante più provviste possibili dal vagone ristorante e filarcela in uno dei corridoi di servizio laterali pregando siano schermati in piombo o scendano abbastanza in profondità da salvarci.”
A quel punto si allontanarono. Passai qualche secondo con il viso appiccicato alla porta del bagno, tutti gli elementi della conversazione mi riportavano ai filmati in bianco e nero sulla guerra nucleare che ci facevano visionare alle superiori, al tempo li prendevamo per divertenti, non avrei mai pensato si potessero tradurre in realtà. Cercai di negare l’evidenza in tutti i modi e provai a leggere un altro significato nelle parole dei soldati, ma nel momento in cui capì che il mondo stava finendo iniziai a sudare freddo, ero teso: dovevo vomitare. Mi accasciai a terra, sentivo i pantaloni che si stavano inzuppando di piscio, ma che importava? Tra poco sarei morto. Mi si riempirono gli occhi di lacrime, quanto può essere beffardo il destino che trasforma una vacanza nell’apocalisse? In preda al panico mi lanciai fuori dal treno a tentoni, e iniziai a correre all’impazzata verso la luce all’estremità della galleria urlando: “Ragazzi rientrate subito, presto!” nessuna risposta, gli ultimi passeggeri stavano venendo scortati all’aria aperta. Continuai a urlare a squarciagola, con tutto il fiato che avevo in corpo, mentre incespicavo e avanzavo affannosamente e scompostamente sulla ghiaia vicina alle rotaie. Ogni passo era sempre più pesante, nell’agitazione inciampai, quando rialzai la testa vidi un flash accecante che illuminò a giorno la galleria. Era troppo tardi. In quel breve istante di luce riuscii a scorgere la porta per il corridoio di manutenzione sul lato del tunnel, mi ci precipitai dentro gattonando e scesi una scala più in profondità possibile prima di sentire la terra tremare, il soffitto iniziò a sgretolarsi e a vibrare, iniziai a pregare soffocato dalle lacrime, non lo facevo da quando avevo 10 anni. A quel punto, dopo un boato assordante, un enorme pezzo di intonaco mi finì sulla nuca, svenni.

Mi svegliai svuotato, non so per quanto tempo rimasi in quelle condizioni, l’unica cosa che sentivo in testa era un profondo nulla. Iniziai a vagare per l’area dedicata alla manutenzione appoggiandomi al muro e i pensieri presto riempirono il mio cervello: le labbra secche indicavano che mi serviva dell’acqua, come avrei potuto sopravvivere senza provviste? Arriveranno i soccorsi? Che ne era dei miei amici? Al loro pensiero mi si offuscarono di nuovo gli occhi, l’ambiente era completamente buio e si respirava un profondo odore di muffa, continuavo ad avanzare ben ancorato alle pareti dello stretto corridoio mentre schivavo le macerie con i piedi. Perché ero ancora vivo? Dove stavo andando? Queste domande, insieme alla botta, contribuivano ai lancinanti dolori alla testa. A rischiarare il mio cammino intervenne una pallida luce verdastra, accelerai il passo e le andai incontro, svoltai a destra insieme al corridoio e giunsi a una stanza con la porta aperta. La fonte di luce attirò subito la mia attenzione: un vecchio terminale di diagnostica per robot, mi diede sollievo vederlo acceso. Iniziai poi a guardarmi intorno, e scoprii l’orrore e la salvezza nello stesso momento: la stanza era crollata per metà della sua superficie; sotto i pesanti massi e le tubature divelte spuntavano due corpi in uniforme spappolati, erano i militari, tentai di restare calmo. Nell’altra metà della stanza si trovavano svariate mensole in acciaio piene di componenti elettronici e attrezzi, ma anche due casse di provviste, dovevano averle portate qui i due malcapitati. Mi ci avventai contro e consumai un’intera bottiglietta d’acqua. Era una pessima idea: avrei dovuto razionarla. Mi sedetti contro il muro ed estrassi della carne secca dalla cassa. Ne mangiai due bei bocconi e restai seduto qualche minuto a riflettere.
Non potevo sicuramente uscire in superficie. Probabilmente, però, anche il sottosuolo era radioattivo e sarei morto di avvelenamento in poco tempo, avrei potuto provare ad esplorare la galleria con il treno al suo interno, ma ero convinto fosse ancora più pericolante della laterale in cui mi trovavo. I soccorsi erano la mia unica speranza. Iniziai a parlare ad alta voce ripetendomi di stare calmo, sarebbe sicuramente arrivato qualcuno, che storia: il ragazzo sopravvissuto all’esplosione nucleare.
Nei miei deliri sembrò quasi di udire una voce appartenente a un’altra persona, “sono impazzito” pensai. Le urla continuarono a risuonare anche quando mi calmai, dopo poco capii che era una reale richiesta di soccorso! Percorsi il corridoio a ritroso seguendo la provenienza delle grida. Il buio non era più un problema, ormai conoscevo la strada, e risalendo le scale arrivai alla porta tagliafuoco che mi separava dalla galleria ferroviaria. Avevo timore ad aprirla, mi sarei ritrovato in un’ambiente ancora più pregno di radiazioni? Forse era troppo pericoloso. Un rauco “Aiuto” strillato con disperazione mi spronò a fare pressione sulla maniglia. Aprii di qualche centimetro la porta e mi bloccai subito: dallo spiraglio filtravano raggi fosforescenti verdognoli, simili a quelli emessi del terminale ma molto più intensi e, sicuramente, non naturali. Cosa diavolo poteva essere? Infilai la testa nella fessura della porta ancora socchiusa e feci esplorare ai miei occhi quel che rimaneva del tunnel: una luce verde riempiva uniformemente l’ambiente, ne cercai la fonte ma senza successo. In compenso osservai che le uscite alle estremità erano ostruite da pensanti massi e sui binari centrali poggiava ancora il treno devastato dal materiale franoso, rimanevano pochi vagoni ancora agibili. Nel complesso, però, evitando le lamiere contorte ci si poteva muovere lungo buona parte del perimetro della galleria. Ricordai perché mi trovavo lì: spalancai la porta e mossi i primi passi verso le carrozze, dovevo trovare la provenienza della voce, che ora sembrava essersi calmata. Mentre costeggiavo il convoglio ferroviario osservavo gli spettrali giochi di luce proiettati sulle pareti dal riflesso dei finestrini infranti, chiedendomi continuamente da dove provenisse la fluorescenza innaturale dell’ambiente. Purtroppo pochi secondi dopo ne scoprii la fonte. Dei suoni metallici mi sorpresero alle spalle, mi voltai di scatto. Da un vagone stavano scendendo gli esseri più orripilanti mai visti sulla terra, non somigliavano neanche lontanamente ai mostri dei film di serie B che proiettavano nei drive-in ogni estate, erano oltre la capacità umana di immaginazione. Sembravano scheletri a cui era stata appiccicata della carne viva addosso, perdevano pezzi di pelle e fluidi da diverse parti del corpo e sembravano dovessero disfarsi in brandelli da un momento all’altro. Erano alti quanto un uomo e ne ricordavano le forme, ma la postura ricurva li faceva apparire molto più terrificanti. Uno di loro, ancora più disgustoso degli altri due compagni, emetteva una fortissima luce propria attraverso il corpo. Era lui il responsabile della surreale atmosfera in cui mi trovavo immerso. Il trio iniziò a fissarmi con tre paia di occhietti neri e scarni. Cominciarono a muovere i primi passi incerti verso di me, accompagnando la camminata ad una serie di grugniti e respiri affannosi bestiali.
Con uno scatto di paura primordiale corsi all’impazzata verso la porta ancora aperta, dietro di me sentii un altro grido “Aspetta, ti prego…”, ma non ebbi tempo per voltarmi e neanche per pensare. Saltai a pie pari le scale rischiando di rompermi qualche osso ed irruppi nella stanza del terminale. Lì barricai la porta con un paio di scaffali e iniziai di nuovo a riflettere alla luce del computer sopportando l'odore dei cadaveri a fianco. Feci appello a tutta la mia forza di volontà per provare a razionalizzare la situazione, la spiegazione più convincente che trovai fu quella di una nuova arma cinese per spaventare i cittadini americani, piuttosto deboluccia come argomentazione. Mi rassegnai al pensiero che ero veramente impazzito, forse un’allucinazione visiva causata dalla botta che avevo preso, o dalle radiazioni. Il rumore di passi strascicati nel corridoio adiacente mi fece trasalire. Iniziai a tremare. “La voce che avevo sentito… Magari è una persona tenuta in ostaggio da quegli esseri, e io non sono l’unico a vederli, e ora stanno venendo a prendere me” i rumori dal corridoio si fecero sempre più intensi. Sentivo le loro dita scheletriche già affondare nelle mie carni, in quel momento avrei preferito morire come i due poveretti di fronte a me, decapitati in un’istante dai detriti. Guardai i loro corpi: uno era completamente ridotto in poltiglia tra i vari pezzi di cemento l’altro, invece, aveva la metà superiore del busto spappolata da un unico blocco di soffitto, dal bacino in giù era rimasto integro. A reggere i pantaloni insanguinati notai una cintura con la fondina allacciata. “la pistola di ordinanza!” esclamai. Mi bastò sfilarla dal suo involucro per ritrovarmi con una 10 millimetri in mano. Controllai il caricatore: era pieno. Tolsi la sicura e mi avviai alla porta per appoggiarci l’orecchio. Si stavano avvicinando, fortunatamente i miei avversari erano molto rumorosi. Dovevo agire subito se volevo coglierli di sorpresa. Rovesciai in terra la barricata che avevo tanto faticato a imbastire, con decisione aprii la porta tenendo la pistola puntata davanti a me e, appena li vidi svoltare l’angolo, svuotai il caricatore. Una pallottola dopo l’altra vidi i loro corpi rachitici venir sbalzati via dalla forza dei proiettili, gli arti si staccarono in un fiume di pus e sangue color pece che si riversò sul pavimento. Mentre sparavo mi sembrò di udire ancora la voce umana, percepita in precedenza, provenire da uno degli orrori che avevo di fronte, ma probabilmente era solo la mia mente che sperava di distinguere un senso in quei grugniti scomposti.
Erano tutti e tre stecchiti ai miei piedi, gettai la pistola scarica. La luce emessa da quello che sembrava il capo del gruppo iniziò ad affievolirsi. Mi consentì gli ultimi minuti di tempo per ispezionare le creature e accertarmi di non essermele immaginate. Per quanto l’intera scena trasmettesse ribrezzo, e ad ogni passo sentissi le scarpe affondare in un lago di sangue e budella mi chinai per osservare da vicino i corpi. Erano ancora più raccapriccianti di quello che si potesse pensare, la pelle non era soltanto scarnificata, ma anche marcia e rigonfia in alcuni punti. Il puzzo era insopportabile. La mia ispezione si arrestò nel momento in cui notai un dettaglio. Le gambe mi abbandonarono e caddi rovinosamente nella pozza sanguinolenta, sguazzando tra arti mozzati e interiora viscide. Quella che pensavo essere una malformazione del cranio di uno dei tre esseri si rivelò una fascia di spugna insanguinata, il secondo stringeva in mano un taccuino pieno di schizzi, l’ultimo smise di emettere luce in quel momento.
Avevo finito i colpi.

Edited by RobCo - 6/6/2018, 08:12
 
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view post Posted on 5/6/2018, 17:46     +1   -1
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Signora Oscura del Den e Principe Daedrico dei Campari

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:doson:
92 minuti di applausi
 
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view post Posted on 5/6/2018, 19:57     +1   -1
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I dungeon non sono mai troppi...

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Fortissimo... complimenti sinceri 😢
 
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view post Posted on 5/6/2018, 22:16     +1   -1
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Call me Charon

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Molto bello, complimenti

Quando arriverà, se arriverà, il momento in cui scopre di chi è la voce proveniente dal vagone?
 
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view post Posted on 5/6/2018, 22:46     +1   -1
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“Last one alive lock the door”

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Grazie a tutti, se avete critiche dite pure che vorrei tentare di migliorare lo stile.
Per la voce preferisco lasciare il mistero: poteva trattarsi dei ghoul ancora mentalmente umani, è un episodio autoconclusivo.
 
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view post Posted on 6/6/2018, 05:54     +1   -1
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Call me Charon

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Come critica c'è solo il nome tank in piccolo alla decima riga
 
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