Odyssey in the Wasteland
Odissey in the Wasteland è un racconto a quattro mani che narra le avventure di Jeff Callaghan, un mercenario di Reilly, e Lil Carlile, un paladino della Confraternita d'Acciaio.Entrambi catturati dall'Enclave per un strano progetto verranno salvati da un misterioso individuo poco prima di giungere a Raven Rock, ma nonostante ciò, si ritroveranno ben presto abbandonati a loro stessi in mezzo alla zona contaminata della capitale. Pur non conoscendosi ed essendo di fazioni differenti dovranno mettere da parte qualsiasi tipo di orgoglio e andare d'accordo, per proteggersi le spalle a vicenda e sopravvivere alle insidie della zona contaminata. Li attende un lungo viaggio, durante il quale vivranno avventure di ogni genere, incontrando personaggi particolari e assistendo ad eventi fuori dal comune. Il loro obiettivo? Tornare a casa... tutti d'un pezzo.
Capitolo I- "Dalla padella alla brace"
Jeff Callaghan
Rovine di Washington , Seward Square ( 3 Settembre 2275 )
< Perché uno non era abbastanza, due troppo poco, e allora eccomi qua, Treeeee Cani! Sì, sono io ragazzi, e vi parlo direttamente dal mio bunker fortificato nel centro dell’inferno di DC. Non è meravigliosa la vita? >
< Puoi giurarci! Queste cazzo di rovine non so mai state tanto belle, ah! > rispose Jeff, pur sapendo che lo speaker non avrebbe mai potuto sentire la sua risposta, ma amava “parlare” con lui, soprattutto quando gli toccava stare da solo.
< Prima del nostro classico incontro con le notizie di quest’oggi, ecco un po’ di musica per voi > le note malinconiche di “I don’t want to set the world on fire” iniziarono ben presto a diffondersi nell’ambiente circostante, tra le macerie silenziose della vecchia capitale.
Aspirò ancora una volta dalla sigaretta ormai consumata per poi lanciarla oltre il bordo del parapetto impolverato.
Era su quel tetto da nemmeno dieci minuti ed era già la terza sigaretta che finiva a marcire tra i detriti di Seward Square.
Si guardò intorno, abbandonandosi contro lo schienale di una sedia che aveva visto tempi migliori, e sospirò: devastazione, il Campidoglio,distruzione, Il Washington Monument e ancora devastazione.
Ormai era abituato al panorama che DC offriva ai suoi “abitanti” ogni singolo giorno, ma c’erano alcuni momenti, brevi e intensi, durante i quali una sensazione di vuoto e di disprezzo verso quel teatro degli orrori si insinuava dentro di lui come un veleno.
“E’ il ricordo di aver distrutto il nostro stesso mondo che ci spinge a provare tutto ciò” gli aveva detto un giorno Reilly mentre affrontavano una discussione a metà tra il filosofico e le cazzate più disparate “Ce lo portiamo dietro tutti, nessuno escluso, anche se siamo nati dopo l’olocausto nucleare. Non lo puoi eliminare, impari a conviverci, fai del tuo meglio per ridare un po’ di speranza a questa terra bruciata e se proprio non ce la fai… beh, c’è sempre il whiskey, no?” aveva poi proseguito, ironizzando parecchio sulla sua “piccola” assuefazione al suddetto alcolico.
Scosse la testa, sorridendo beffardo, afferrò la fischietta argentata col logo dei mercenari e svitò con estrema tranquillità il tappo per poi sorseggiarne con gusto il contenuto:
< E se proprio non ce la fai… beh, c’è sempre il whiskey, no? Brindo a te Reilly e alle tue perle di saggezza! > esclamò, alzando la fischietta al cielo plumbeo.
Ripose il suo prezioso “elisir della felicità” nella tasca laterale dell’armatura da mercenario e tornò a fissare i dintorni, ricordandosi che nonostante la musica e il whiskey era pur sempre in missione, ma soprattutto si trovava in una zona che “di tranquillo non aveva un cazzo”, citando Brick.
Effettuare una seconda mappatura di Seward Square per possibili incongruenze con i file precedentemente raccolti: era questa la missione che gli era stata affidata dalla Signora in persona, la quale si era soffermata sul fatto che non potevano permettersi di avere dei dati falsi su una zona tanto vicina al loro QG, che andava effettuata anche una ricognizione di routine e che, parte che aveva odiato più delle altre, sarebbe dovuto andare da solo poiché Bob era bloccato in infermeria con una pallottola nella spalla e delle schegge nella gamba.
“Missione del cazzo” pensò, spegnendo la radio poco prima che iniziasse “Anything goes”. C’era troppo silenzio per i suoi gusti e per qualche minuto la radio l’aveva distratto da quella stranezza.
Seward Square, come qualsiasi altro dannato luogo di DC, era infestato dai supermutanti e dai loro cani da guardia, “centauri” come li chiamavano i pignoli di turno, o perlomeno da qualche pattuglia che andava a caccia di umani, ma quel giorno non c’era anima viva: nemmeno un ghoul solitario che se ne andava urlando a destra e manca, alla ricerca di qualche ratto da sgranocchiare o del senso della vita.
Non era un particolare da sottovalutare e tornato serio dopo la “pausa sigaretta” impugnò il suo fidato fucile d’assalto e si assicurò che fosse carico e pronto a riversare piombo su qualsiasi ospite indesiderato.
Ripose il modulo geo-mapper nello zaino, insieme al resto dell’attrezzatura, e stava per abbandonare il tetto di quell’edificio diroccato quando qualcosa attirò la sua attenzione. Afferrò il binocolo sul tavolo e guardò in quel punto: oltre il ponte crollato in mezzo alla piazza si intravedevano i segni visibili di uno scontro a fuoco e anche qualcosa simile ad un cadavere verde. Forse era un supermutante, o peggio, ma qualunque cosa fosse doveva scoprirlo e riferire a Reilly. Aveva già “cazzeggiato abbastanza”, era il momento di tornare a fare quello che gli riusciva meglio: essere un mercenario.
Scese in fretta le scale piene di calcinacci e prima di uscire si fermò un attimo a riflettere: non sapeva cosa lo attendeva là fuori e nel tempo trascorso in cima all’edificio, nonostante la musica, non aveva sentito alcun rumore che si potesse ricollegare ad una battaglia. I supermutanti facevano rumore, sempre.
Ripose il fucile dietro la schiena e impugnò la 44 magnum: era da solo e muoversi velocemente gli avrebbe concesso un vantaggio in qualunque situazione.
Uscì con circospezione e i suoi occhi color cenere saettarono da una parte all’altra alla ricerca di un qualsiasi movimento, anche il più impercettibile, ma niente, il nulla più totale.
Diede un’occhiata anche al contatore geiger per sicurezza e proseguì verso il punto dello scontro, sfruttando tutte le coperture possibili e continuando a tenere gli occhi aperti e l’udito ben teso. Ancora nulla, solo silenzio.
Si accovacciò dietro la carcassa di un tir ribaltato e guardandosi intorno per l’ennesima volta, tutta quella pace lo stava facendo innervosire, sfilò la ricetrasmittente che gli aveva dato Donovan:
< Mr Whiskey a Base Hope. Mi ricevete? > nessuna risposta, proprio come sul tetto non c’era segnale e questa era un’altra stranezza da aggiungere alla lista.
< Mr Whiskey a Base Hope. Mi ricevete? C’è qualcosa che non va qui a Seward Square > ritentò, ottenendo lo stesso risultato di prima. “Fanculo, mi tocca sempre fare tutto da solo” sentenziò nella propria testa e proseguì verso la sua meta, evitando con cura i luoghi più scoperti.
Lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi lo stupì: nel vicolo accanto al cadavere del supermutante e dietro alcune macerie nei dintorni c’erano i corpi senza vita di altri cinque bestioni verdi, crivellati dai laser. Nessun’altro cadavere, né umano, né mutante, niente di niente, solo macchine di sangue e segni di trascinamento.
< Che cazzo è successo? > chiese, pur sapendo che non avrebbe ottenuto alcuna risposta. I morti non parlano, specie se hanno più buchi di una groviera svizzera.
Osservò con attenzione quel massacro: sembrava quasi che i supermutanti fossero stati colti di sorpresa, il terreno era disseminato di bossoli ma non c’era traccia dei proiettili. Inoltre le bruciature da laser erano troppo numerose sia sui corpi che a terra e questo poteva significare solo una cosa: gatling, laser gatling.
Non sopportava i supermutanti, ma non avrebbe augurato quella morte nemmeno a loro.
La faccenda era più complicata di quanto avesse immaginato, ma qualcos’altro attirò la sua attenzione più di quei cadaveri alti due metri: delle voci.
Si mosse con cautela verso il punto da cui provenivano e sporgendosi da dietro un muretto da giardino sgranò gli occhi: nella zona più esterna di Seward Square c’era un vertibird e a causa delle rovine del ponte e di alcuni palazzi crollati non era riuscito a vederlo prima. Accanto al velivolo c’erano degli uomini dell’Enclave che stavano invitando “gentilmente” alcuni senzatetto a salire sul vertibird puntandogli i fucili al plasma contro.
< Santi cazzi > sibilò Jeff, cercando di restare nascosto il più possibile. L’Enclave non si era mai spinta tanto lontana da Raven Rock e ancor peggio non aveva mai fatto prigionieri.
“La questione puzza più della merda di bramino” osservò, pensando al da farsi: doveva assolutamente riferire a Reilly dell’evento, ma non poteva nemmeno lasciare quei poveracci nelle mani dell’enclave, che equivale ad una fine peggiore dei supermutanti di prima.
< Vi prego, stavamo solo cercando qualcosa da mangiare, non abbiamo fatto nulla di sbagliato, vi prego… > stava tentando di giustificarsi il più anziano dei senzatetto, anche perché gli altri erano rimasti in silenzio a fissare l’alone di luce verde generato dai fucili. Erano terrorizzati, glielo poteva leggere negl’occhi.
<sta zitto!> esclamò l’ufficiale, colpendo l’uomo in pieno viso con il calcio dell’arma < Questo vecchiaccio non ci serve, caricate gli altri immediatamente e fatelo fuori > ordinò senza giri di parole.
Jeff si morse le labbra fino a sentire il sapore del sangue: era da solo contro un’intera pattuglia dell’Enclave armata di tutto punto, ma non poteva abbandonare quegli innocenti, andava contro la morale dei mercenari, andava contro la sua morale.
Non poteva farli fuori tutti, ma poteva distrarli con un diversivo e permettere a quei disgraziati di mettersi in salvo. Era rischioso, ma non aveva il tempo di rifletterci, doveva agire.
Sfilò un fumogeno dalla cintura dell’armatura e lo innescò poco prima di affacciarsi dal suo nascondiglio:
< Ehi, scatolette di metallo ambulanti, ho un regalino per voi! > urlò, lanciando il fumogeno quasi fosse una granata e i soldati, vedendo quell’oggetto roteare verso di loro, si rifugiarono velocemente dietro il velivolo.
< Ehi! > questa volta si rivolse ai senzatetto < che cosa state aspettando? Fuggite, maledizione, fuggite! > i prigionieri annuirono confusi e corsero via, disperdendosi tra le rovine e nello stesso istante il fumogeno toccò terra iniziando a sprigionare la nube grigiastra.
Li aveva salvati, per il momento, ma ora doveva pensare a salvare sé stesso: prese a correre a perdifiato sentendo le imprecazioni dell’ufficiale e i colpi al plasma che sibilavano riscaldando l’aria.
Scoperto il trucco del fumogeno i soldati erano furiosi e stavano sparando alla cieca.
Udì le urla disperate di alcuni dei prigionieri, probabilmente colpiti durante la fuga, e senza pensarci due volte si infilò in un vicolo per far perdere le sue tracce: non poteva combattere, lo avrebbero fatto fuori senza troppi complimenti.
Stava per superare la carcassa di un’auto bruciata quando si ritrovò davanti uno dei soldati e il suo fucile laser che puntava dritto in mezzo agli occhi.
< Fai un altro passo e sei un uomo morto, bastardo > lo avvisò il soldato raggiunto poco dopo dai suoi compagni. Era circondato.
< Merda… > aveva osato troppo e ora era nei guai fino al collo.
< Getta le armi a terra, tutte! > lo intimò un altro dell’Enclave e seppur controvoglia obbedì: lasciò scivolare a terra il fucile, il coltello da combattimento e infine posò il revolver, alzando le mani in segno di resa.
< Contenti? >
L’ufficiale si avvicinò alle sue spalle e lo colpì con un manganello elettrificato. Jeff urlò di dolore, scosso dagli spasmi e cadde a terra con un tonfo sordo. Non aveva perso i sensi, ma non riusciva più muoversi.
< Sei stato molto coraggioso, ragazzo, o molto stupido. Mi piace la tua tenacia, sai? Ora verrai a farti un giretto con noi > gli disse l’ufficiale, sorridendo beffardo.
< Sai dove puoi ficcartelo quel sorriso? > e la risposta dell’uomo fu un’altra scossa elettrica.
Dolore, ancora dolore, buio.